Non è per nulla facile stabilire chi sia stato l’uomo più ricco della storia dell’umanità. Molti fattori, infatti, complicano l’indagine: se per le fortune accumulate qualche decennio fa è relativamente facile calcolare l’inflazione, il potere d’acquisto ed altri indici che permettono di “attualizzare” il patrimonio di questo o quel magnate, la stessa cosa non è possibile con chi visse secoli fa, accumulò fortune in valute diverse oggi scomparse e, soprattutto, non compilava dichiarazioni dei redditi né quotava in borsa le proprie aziende o banche. Cercare di capire se fosse più ricco Gengis Khan o John Rockefeller, Marco Licinio Crasso o Bill Gates è, insomma, piuttosto difficile, anche se non del tutto ozioso: in fondo, valutare il peso di una potenza economica individuale all’interno di un’epoca e raffrontarla con quelle dei nostri giorni aiuta a comprendere meglio le varie epoche, la ripartizione della ricchezza, le disparità e la potenza dei vari gruppi economici. Per fortuna, molti storici ed economisti hanno provato a risolvere l’annosa questione, e qualche classifica in questi anni è venuta a galla, più o meno accurata e più o meno condivisibile a seconda dei criteri e degli strumenti d’indagine di cui si è fatto uso. E noi, confrontando i pro e i contro delle varie graduatorie, vi riportiamo (e vi diamo una breve biografia de) i primi cinque uomini più ricchi della storia.
Se il nome di Rockefeller è, nei decenni, diventato sinonimo di un uomo ricchissimo, di un magnate e di un miliardario è perché, effettivamente, la sua fortuna fu mastodontica e praticamente impossibile da eguagliare. Nato a New York nel 1839 da una famiglia non certo abbiente (il padre era uno di quei ciarlatani che giravano il paese vendendo medicine miracolose con cui prometteva di guarire perfino dal cancro), studiò e iniziò la sua carriera imprenditoriale a Cleveland, entrando presto nel settore petrolifero, che allora era solo agli albori ma di cui aveva fiutato l’importanza. In breve tempo costituì una raffineria di petrolio con politiche di prezzi molto aggressive e reinvestì completamente gli utili cercando di acquisire le aziende concorrenti, sia tramite offerte di mercato, sia facendo loro una vera e propria guerra economica che finiva per mandare sul lastrico chi non si piegava al suo volere. Nel 1870, ad appena 31 anni, fondò con alcuni soci la Standard Oil che in breve si espanse, diventando la prima azienda petrolifera americana e mondiale; creando tante piccole aziende locali legate da un unico trust, infatti, Rockefeller riuscì ad aggirare le leggi americane contro il concentramento industriale e arrivò a controllare più del 60% del mercato. Nel 1911, in seguito anche a una dura campagna mediatica, la Corte Suprema però intervenne sull’argomento, ordinando la chiusura della Standard Oil e il suo smembramento in tante diverse aziende locali: nacquero così quelle che sarebbero poi diventate la Exxon (o Esso), la Mobil, la Chevron ed altre sigle. Rockefeller comunque continuò a detenere quote di minoranza in tutte le nuove società, anche se decise di devolvere in beneficenza e ai suoi familiari gran parte del suo patrimonio. Secondo i calcoli effettuati dalla rivista Forbes e da altri operatori del settore, al valore attuale il patrimonio raggiunto da Rockefeller all’apice del suo potere si aggirerebbe attorno ad una cifra compresa tra i 336 e i 692 miliardi di dollari, pari a circa l’1,5% del PIL di allora degli Stati Uniti; per darvi un termine di paragone Bill Gates, l’attuale uomo più ricco del mondo, arriva “appena” a 76 miliardi di dollari.
Sicuramente conoscete Paperon de’ Paperoni, il personaggio creato da Carl Barks nel 1947 ispirandosi all’Ebenezer Scrooge del Canto di Natale di Charles Dickens: zio ricchissimo e scorbutico di Paperino, è stato protagonista di migliaia di storie prodotte soprattutto nel nostro paese, che l’hanno reso uno dei personaggi disneyani più popolari, nonostante un carattere non certo facile da gestire. Ebbene, probabilmente tra le fonti di Barks non ci fu solo il racconto di Dickens, ma anche la biografia di Andrew Carnegie, che con la rivalutazione del patrimonio dovuta all’inflazione sarebbe il secondo uomo più ricco di sempre (anche se, in rapporto al PIL, scenderebbe al quinto posto). Nato in Scozia, a Dunfermline, nel 1835, emigrò con la famiglia negli Stati Uniti ad appena tredici anni, iniziando subito a lavorare in un cotonificio e proseguendo poi con una serie di impieghi umilissimi, che non lo spaventavano affatto e gli consentirono invece di accumulare la prima quantità di denaro necessaria per fare degli investimenti. Mentre frequentava i locali notturni di Pittsburgh per conoscere persone importanti e prendeva in prestito libri da un benefattore locale per formarsi una cultura personale, Carnegie fece rapidamente carriera, entrando nel 1853 in una compagnia siderurgica che fabbricava rotaie per la ferrovia: in breve iniziò ad investire i primi risparmi in altre aziende legate a quel ramo e, grazie anche allo scoppio della Guerra civile, accumulò un piccolo patrimonio; a partire dagli anni ’80 dell’Ottocento iniziò così a prendere nelle sue mani tutte le acciaierie prima della zona, e poi degli Stati Uniti, in una concentrazione industriale che mai si era vista prima. Ma Carnegie, dopo una vita passata a lavorare selvaggiamente, non era più interessato ai profitti: nel 1901 vendette tutto al banchiere J.P. Morgan – in un’operazione mastodontica – e iniziò a devolvere in beneficenza gran parte del suo patrimonio, facendo costruire circa tremila biblioteche in giro per il paese ma anche in Canada e Gran Bretagna, musei, università (quella di Pittsburgh, ad esempio) e fondazioni, oltre alla famosa Carnegie Hall di New York. Al massimo della sua ricchezza e rapportato alla svalutazione, il suo patrimonio doveva valere circa 309 miliardi di dollari attuali.
Lasciamo per un attimo il periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, periodo storico di grandi fortune nate dal nulla e base del cosiddetto sogno americano, e spostiamoci nei secoli del Medioevo. Solitamente, quando si parla di reali – in quell’epoca e in quelle successive -, si pensa sempre a personaggi con le mani bucate, incapaci di amministrare i loro beni e costantemente bisognosi di chiedere l’aiuto economico dei nobili, dei sudditi, dei banchieri fiorentini o olandesi e del Parlamento, a seconda del momento storico. Eppure, qualche re in grado di accumulare discrete ricchezze c’è stato, primo fra tutti Guglielmo il Conquistatore, il normanno che nel 1066 assoggettò l’Inghilterra, al tempo in mano ai sassoni: secondo i calcoli condotti dallo storico William Rubenstein e divulgati dal Times, il patrimonio di Guglielmo nell’ultima parte della sua vita arrivò fino a un valore pari a circa 209 miliardi di dollari attuali. Nato nel 1028 a Falaise, in Normandia, era figlio del duca Roberto e della sua concubina Harleva, figlia di un conciatore; soprannominato inizialmente il Bastardo per via della sua origine illegittima, poté comunque diventare duca alla morte del padre – che avvenne durante un pellegrinaggio in Terra Santa nel 1035 – per via del more danico, un residuato di tradizione pagana e vichinga che consentiva questa discendenza. Dopo qualche anno di disordini e sostanziale guerra civile, diventato maggiorenne seppe ristabilire la pace nel ducato e poi assoggettare, tramite alleanze e guerre, alcune terre vicine, come il Maine e le Fiandre, preoccupando anche il re di Francia che comunque fu sconfitto in battaglia. Nel frattempo aveva messo gli occhi anche sull’Inghilterra, stringendo patti coi futuri eredi al trono che però, alla morte di Edoardo il Confessore, li disattesero, dando a Guglielmo il pretesto per invadere l’isola. Con la Battaglia di Hastings e con una lunga serie di altri screzi locali Guglielmo conquistò l’Inghilterra, facendosene proclamare re e dando il via a una nuova dinastia. Il suo dominio non fu leggero: impose vescovi normanni e soprattutto fece stilare il Domesday Book, una sorta di registro catastale ante-litteram, col quale poté diminuire il potere dei baroni e richiedere tasse in maniera precisa e puntuale, addirittura triplicandole rispetto ai dominatori precedenti. In questo modo accumulò grandi ricchezze che però ingolosirono i suoi figli, con i quali si scontrò anche duramente. Morì nel 1087 per un banale incidente: ammirando la distruzione ad opera del suo esercito della città ribelle di Mantes, cadde da cavallo e si infortunò, sviluppando una peritonite. Divise i suoi possedimenti dando al primogenito la Normandia e al terzogenito l’Inghilterra.
Unico personaggio contemporaneo della nostra cinquina è Muammar Gheddafi, il dittatore libico scomparso nel 2011 in seguito alla Guerra civile condotta dal Consiglio Nazionale di Transizione. Nato nel 1942 in una tenda in Tripolitania da una famiglia islamica piuttosto umile, entrò nell’esercito nel 1961, diventando capitano otto anni più tardi; proprio in quello stesso 1969, autopromossosi colonnello, si mise alla guida di un tentativo di colpo di stato contro il re Idris I, giudicato troppo servile nei confronti di Usa e Francia, riuscendo a salire al potere e stabilendo una dittatura che sarebbe durata per più di quarant’anni. La sua politica variò notevolmente nel tempo, a seconda delle varie convenienze politiche: prima cacciò tutti gli occidentali dal paese, nazionalizzando le imprese – soprattutto quelle petrolifere – e cercando l’alleanza dell’Egitto; poi passò all’attacco frontale contro i paesi occidentali, finanziando il terrorismo dell’OLP e dell’IRA e commissionando anche attentati in prima persona, come l’esplosione di un aereo a Lockerbie che, fino all’11 settembre, restò il più grave attentato terroristico mai avvenuto; infine, dopo il 2000, a causa anche dell’embargo deciso dall’ONU a fine anni Ottanta che stava mettendo in ginocchio l’economia, Gheddafi si riavvicinò all’Occidente, ponendosi da mediatore in alcuni conflitti tra pesi islamici e allacciando buoni rapporti commerciali (e non solo) con l’Italia, che anche durante gli anni degli attentati aveva mantenuto una posizione assai prudente nei confronti della Libia. Poi, però, arrivarono inattese la Primavera araba e la rivolta interna appoggiata dalla NATO, che portarono alla cattura e all’uccisione di Gheddafi. In vita il suo patrimonio era difficilmente quantificabile, ma dopo la sua morte tutti i suoi averi sono stati sequestrati, sia in Libia che nei paesi occidentali: in Italia ad esempio il dittatore deteneva l’1,26% di Unicredit, il 2% di Finmeccanica, l’1,5% della Juventus e così via; tra tutte le quote azionarie, gli immobili e i conti correnti sequestrati in giro per il mondo, il patrimonio di Gheddafi è stato stimato attorno alla faraonica cifra di 200 miliardi di dollari.
Ritorniamo nell’America della frontiera e delle ricchezze nate dal nulla con Cornelius Vanderbilt, un imprenditore di lontane origini olandesi che visse qualche decennio prima di Rockefeller e Carnegie, ma perfino più di loro si dimostrò spietato negli affari e nei rapporti personali. Nacque nel 1794 a Staten Island, all’epoca non ancora inglobata nella città di New York, da una famiglia piuttosto umile, abbandonando gli studi ad 11 anni per iniziare a lavorare in una società di trasporti. Già a 16 anni aveva fondato la sua prima compagnia e a 18 – durante la guerra del 1812 contro la Gran Bretagna – ottenne le prime commesse pubbliche con le sue golette a vela, che gli valsero il soprannome di Commodoro. Passò poi, con fare spregiudicato e appellandosi ai principi della libera concorrenza, al settore delle navi a vapore, dove riuscì a mandare in crisi i trust consolidati, e poi, dopo il 1833, a quello delle ferrovie: durante uno spostamento, infatti, il treno su cui viaggiava (e tra i passeggeri c’era anche il Presidente degli Stati Uniti di allora, John Quincy Adams) deragliò, portandolo a un mese d’ospedale per costole rotte e perforazione del polmone ma anche alla convinzione che si potesse investire con buon profitto nel settore, sbaragliando la fragile concorrenza. In breve divenne il magnate dei trasporti sia su fiume, che su mare, che su rotaia, aprendo anche nuove rotte per l’istmo del Nicaragua anziché per quello di Panama e costruendo la Grand Central Station di New York, che sarebbe poi evoluta nel Grand Central Terminal attuale. Ebbe negli anni pure dei vistosi rovesci finanziati che lo portarono a perdere il corrispettivo di centinaia di milioni di dollari attuali, ma ogni inconveniente gli aprì la strada a un nuovo affare; di carattere difficile, vendicativo e avido, diseredò tutti i figli maschi tranne uno, William, ritenuto l’unico dotato del suo stesso fiuto e della sua stessa determinazione, e lasciò meri contentini anche alla moglie e alle figlie. Secondo i calcoli dell’economista Peter Bernstein pubblicati su Forbes, il suo patrimonio complessivo, considerata l’inflazione avvenuta tra allora e oggi, ammonterebbe a ben 185 miliardi di dollari.