Cinque straordinarie canzoni metal anni ’80

Gli anni ’80 sono stati un decennio molto particolare, e a suo modo contraddittorio. Senza scendere nel campo della politica e della società, basta tracciare un quadro della scena musicale per rendersene conto. Il pop più sfrenato conviveva col metal, il punk al tramonto lasciava poco alla volta spazio al grunge, l’immagine dei cantanti veniva esaltata e svilita a seconda delle circostanze.

Questa grande varietà la si può ritrovare anche all’interno del movimento heavy metal, uno dei più caratteristici di quel decennio. Le radici di questa “musica pesante”, in cui un grande peso aveva l’amplificazione e la distorsione delle chitarre e dei bassi, andavano ricercate in realtà nei decenni precedenti. Nell’hard rock, spesso di matrice britannica, emerso tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70. Nelle canzoni dei Led Zeppelin, dei Deep Purple, dei Black Sabbath e dei Blue Öyster Cult, solo per citarne gli esponenti più famosi.

Negli anni ’80, questo movimento cambiò in parte pelle e toccò il suo picco di popolarità. Le band si moltiplicarono. Oltre a quelle di cui parleremo più diffusamente nelle prossime righe, bisogna citare pezzi da novanta del calibro dei Judas Priest, dei Kiss, dei Def Leppard, degli AC/DC, dei Rush, degli Europe, dei Van Halen, dei Bon Jovi, dei Ratt e dei Mötley Crüe. Ma quali sono le canzoni più memorabili di quell’epoca? Cerchiamo di rispondere. Ecco dunque cinque tra le più grandi canzoni metal degli anni ’80.

Motörhead – Ace of Spades

Lemmy apre la strada

Negli ultimi mesi, il mondo del rock è stato scosso, purtroppo, da varie dipartite. A fine dicembre è stata la volta di Lemmy Kilmister, leader e voce dei Motörhead, scomparso a 70 anni appena compiuti. A lui sono legati gli albori dell’heavy metal come lo conosciamo oggi, visto che fu proprio la sua band quella che per prima propose al grande pubblico un sound che era diretta evoluzione dell’hard rock e del punk, con suoni potenti e veloci e una voce ruvida ad accompagnarli. Formatisi a metà anni ’70, i Motörhead incontrarono i primi successi attorno alla fine del decennio. Il singolo che permise loro di sfondare fu infatti Overkill, del 1979, da molti ritenuto il pezzo della svolta del genere.

Nel 1980, in un periodo di grande ispirazione per il gruppo, uscì Ace of Spades, il quarto album. Un disco che per la prima volta presentava in copertina una foto della band e che riuscì a scalare le classifiche, arrivando fino alla quarta posizione in Gran Bretagna. La formazione classica – formata da Lemmy, “Fast” Eddie Clarke e “Philty Animal” Taylor – decise di aprire l’album con il brano omonimo, destinato a un enorme successo. Un brano che parla di gioco d’azzardo, ma che può essere inteso anche come un manifesto del modo “metal” di affrontare la vita.

Iron Maiden – Hallowed Be Thy Name

Bruce Dickinson e il condannato a morte

Andiamo avanti di due anni e arriviamo al 1982. Nel marzo di quell’anno nei negozi di dischi arrivò The Number of the Beast, terzo lavoro degli Iron Maiden. Questa era una band britannica che aveva già incontrato un discreto successo, ma aveva appena cambiando il proprio cantante, sostituendo Paul Di’Anno con Bruce Dickinson. E proprio sotto la guida di quest’ultimo – cantante straordinario e vero animale da palcoscenico – i cinque riuscirono a sfondare, rendendo più corposo il loro suono. The Number of the Beast divenne disco di platino negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Canada, consegnando la band alla leggenda.

Varie erano le tracce degne di nota, dalla stessa The Number of the Beast a Run to the Hills. Noi abbiamo scelto però la canzone che chiudeva il disco, una delle più intense di tutto il decennio: Hallowed Be Thy Name. Il testo racconta gli ultimi momenti di un condannato a morte che, prima depresso per l’imminente morte, pian piano ritrova vigore e speranza in qualcosa che possa proseguire al di là dell’esecuzione. Il titolo è infatti un verso del Padre nostro (il «sia santificato il tuo nome»), con cui il condannato sembra quasi avviarsi verso il patibolo.

Metallica – Master of Puppets

L’arrivo del thrash metal

Gli Iron Maiden furono, indubbiamente, i più visibili esponenti del movimento in Europa. Negli Stati Uniti, il compito di scalare le classifiche fu invece assunto dai Metallica, che si erano formati in California nel 1981. Questi seppero anzi far fare un passo in avanti al genere, sviluppando le caratteristiche di quel thrash metal che si sarebbe poi espanso grazie ai lavori anche di Megadeth, Anthrax e Slayer. Per quanto riguarda la band di James Hetfield e Lars Ulrich, la consacrazione mondiale arrivò nel 1986 con Master of Puppets.

Dell’album in sé e per sé abbiamo già avuto modo di parlare altrove. Riuscì ad aggiudicarsi sei dischi di platino negli USA nonostante il bassista Cliff Burton fosse morto (in un pauroso incidente) durante il tour promozionale, e rese i Metallica delle star internazionali. A trascinare le vendite fu il suono particolarmente corposo, ma anche il singolo omonimo, Master of Puppets. Una canzone sul cui significato si è discusso molto, ma che probabilmente allude alla dipendenza da eroina, che diventa la padrona della vita di chi si droga. Il brano, considerato uno dei migliori pezzi metal di sempre, è stato rieseguito da molte altre band, tra cui Dream Theater, Primus e Trivium

Slayer – Raining Blood

Dal thrash al death metal

È datata 1986 un’altra pietra miliare del thrash metal come Rainin Blood, album che, prodotto da Rick Rubin, fu salutato da subito come uno dei migliori del decennio. Gli Slayer, gli autori, si erano formati anch’essi a Los Angeles nel 1981, ma rispetto ai Metallica avevano abbracciato uno stile più estremo, sia a livello sonoro che testuale. Mentre le parole delle loro canzoni tiravano in ballo spesso e volentieri il diavolo e il satanismo, le musiche si caratterizzavano per l’utilizzo della doppia cassa e per brani veloci e trascinanti, che concedevano poco spazio alla melodia.

Reign in Blood, da questo punto di vista, fu il punto d’arrivo di un percorso cominciato con Show No Mercy. La svolta fu contrassegnata dal passaggio alla Def Jam, l’etichetta di Rubin, che li spinse a portare ancora più in là il loro sound. Le riviste specializzate reagirono con entusiasmo, definendo l’album il più pesante di tutti i tempi, mentre i fan lo premiarono con vendite importanti negli Stati Uniti. Non mancarono però le polemiche, perché, oltre ai consueti riferimenti al demonio, nell’album si parlava anche del nazismo, in termini spesso ambigui. Tanto è vero che la fama di band con simpatie nell’estrema destra – che non si sa se poi siano reali o solo immaginate – è rimasta appiccicata addosso al gruppo di Kerry King e Jeff Hanneman.

Guns N’ Roses – Welcome to the Jungle

Il metal sbarca su MTV

Se Metallica e Slayer avevano aperto la strada ad una derivazione ancora più estrema del metal, il movimento rimaneva però variegato. A dimostrarlo, nel 1987, fu l’enorme successo dell’album d’esordio dei Guns N’ Roses, Appetite for Destruction. Evoluzione del glam metal e dell’hair metal, il disco della band di Axl Rose ottenne vendite da record, arrivando a sfiorare i 30 milioni di copie vendute. Un successo che in realtà non fu immediato: l’album cominciò infatti a scalare le classifiche a un anno di distanza dalla sua uscita, grazie a una massiccia esposizione dei video della band su MTV.

Tre erano i brani che emergevano rispetto agli altri: Paradise CitySweet Child O’ Mine (con un celebre riff di Slash) e soprattutto il pezzo di apertura, Welcome to the Jungle. La canzone era stata scritta da Rose a Seattle, ricordando però un viaggio a New York e una mezza aggressione subita da un barbone. Da allora è diventata il simbolo del rock americano di fine anni ’80, tanto è vero che fu utilizzata anche dall’esercito per “tormentare” Manuel Noriega a Panama mentre era rifugiato presso l’ambasciata vaticana. Il brano è inoltre, oggi, utilizzatissimo anche da varie compagini sportive: accompagna o ha accompagnato a lungo l’entrata in campo dei Boston Celtics, della Fortitudo Bologna e della Benetton Treviso di rugby.

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Redazione