È più o meno dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente che l’Italia è la terra dei regionalismi e dei campanilismi, con mille territori che hanno ognuno le proprie tradizioni, costumi e lingue; e se la tv, negli ultimi sessant’anni, ha di certo attenuato i divari e ci ha resi tutti molto più simili, ci sono usi che resistono imperterriti, vuoi per il carico di storia che si portano dietro, vuoi per una sorta di orgoglio localistico che a volte ha assunto anche tinte fosche.
Una di queste tradizioni più importanti e durature è sicuramente il dialetto veneto, una delle poche lingue vere e proprie che ancora sono diffusamente parlate in una zona relativamente ampia della nostra nazione, con una propria grammatica, un vocabolario e delle precise influenze derivanti dai paesi che hanno dominato il territorio – o con i quali la Repubblica veneziana ha avuto rapporti commerciali – nel corso dei secoli.
Praticamente tutte le parole del dialetto veneto hanno una precisa corrispondenza con l’italiano, e anche nel caso di costruzioni della frase diverse non è difficile tradurre dall’una all’altra lingua e viceversa; ci sono dei casi, però, in cui in veneto esistono delle espressioni che sono sostanzialmente intraducibili nella lingua ufficiale, se non attraverso lunghe locuzioni che comunque non riescono sempre a rendere appieno l’idea contenuta nei termini originali. Vediamo dunque insieme, un po’ per curiosità e un po’ per farci assieme due risate, cinque espressioni del dialetto veneto intraducibili in italiano.
Bocia
I mille modi per parlare di bambini e infantilismo
Difficile dire dove sia comparso per la prima volta il termine bocia, visto che lo si trova utilizzato anche in Piemonte (col significato di bambino) e Lombardia (dove propriamente indica un garzone o un apprendista e, solo per estensione, un ragazzo), ma è sicuramente in Veneto che la parola viene usata ancora oggi con la maggior frequenza, assieme a molte altre dal significato almeno in parte simile.
Il bocia (al plurale semplicemente i bocia) è un bambino o al massimo un giovane ragazzo, per cui il termine può essere usato in molte occasioni come sinonimo di fio (o fiolo, a seconda delle zone), puteo (o putin) e toxo o toxato (o toxeto).
Bocia, però, ha anche un significato aggiuntivo: dire a un ragazzo che è proprio un bocia è infatti una forma di derisione, corrispondente in italiano al dire che si è infantili, o immaturi, o comunque non degni di stare nel gruppo dei “grandi”; in certi casi, al contrario, una persona può definire se stessa a posteriori un bocia, nell’eventualità in cui voglia sottolineare che un’impresa è stata compiuta ad un’età particolarmente precoce (non è raro, ad esempio, che i grandi scalatori raccontino le loro imprese di gioventù aprendo la narrazione con un a ierimo tuti dei bocia, eravamo tutti dei ragazzini). Per estensione, infine, il termine bocia può essere usato anche per indicare le reclute del corpo degli Alpini.
Bronzsa cuerta
Dalle braci sul camino al comportamento dei giovani veneti
Più curiosa – e forse meno nota al di fuori del Triveneto – è la storia dell’espressione bronzsa cuerta, molto usata in Veneto ma del tutto priva di un corrispettivo in italiano. Letteralmente, quelle due parole si possono tradurre con brace coperta, ossia quella brace che continua a bruciare nonostante sia seppellita sotto la cenere del camino, senza che possa essere vista.
In Veneto però questa frase assume un significato figurato che è presente solo in questa regione, quasi come se questo potesse dipendere in qualche modo dal carattere dei veneti stessi: la bronzsa cuerta (epiteto che, a seconda dei metodi, può essere traslitterato anche come bronzsa coerta, bronzxa coerta, bronsa coerta e così via) è infatti generalmente una persona che all’apparenza sembra buona, pacifica e a modo, ma che, sotto sotto, si rivela vivace, “peperina”, in certi casi anche pericolosa, una sorta di piccola “carogna”, in senso affettuoso o spregiativo a seconda del contesto.
Spesso, comunque, l’espressione viene usata quasi come un complimento con quei bambini o ragazzini che sembrano tanto educati e perfino anonimi nel loro stare sempre alle regole, ma che appena viene dato loro un po’ di spazio, o appena vengono punti sul vivo per un qualche motivo, si rivelano pieni di risorse, divertenti, spigliati e, soprattutto, dei comici provetti.
Mona
Quando l’offesa non arriva dai genitali maschili
Mona è probabilmente la parola più celebre della nostra cinquina, e quella maggiormente carica di storia. Letteralmente indica l’organo genitale femminile e la sua origine pare doversi ricercare addirittura nella lingua dei celti che un tempo abitavano la regione (dove mònes indicava la scimmia) o nel greco mounì, espressione volgare per indicare proprio i genitali della donna; ma la parola in Veneto non è più tanto usata, oramai, nella sua accezione originaria, quanto come aggettivo nel significato di scemo, stupido, fesso (e la cosa strana è che in italiano, per esprimere lo stesso concetto, ci si riferisce ai genitali maschili, non a quelli femminili).
Così, se per parlare di una bella ragazza è entrato nell’uso il volgare italiano figa, mona si usa ormai prevalentemente coi ragazzi, sia in senso spregiativo (per dare del cretino), sia in senso affettuoso (ti xe un mona suona come l’italiano sei uno sciocco, e lo si può di conseguenza dire anche al proprio migliore amico); ma ancora più curiose sono le molte espressioni e frasi fatte che usano questo termine: mandar tuto in mona è traducibile con un mandare tutto in vacca; va in mona equivale al nostro va’ a quel paese (o qualcosa di più volgare); ‘na monada è un’espressione che, al contrario dell’italiano ficata, significa scemenza, cosa di poco conto, stupidaggine; ‘ndar in mona, infine, si usa per quelle cose o quelle persone che si sono rincitrullite o danneggiate.
Ombra
I venditori di vino a Piazza San Marco
Si dirà: come mai in questo elenco figura ombra, una parola che in italiano esiste ed ha un significato ben chiaro? La risposta è semplice: perché ombra in dialetto veneto significa sì la zona di assenza della luce, ma anche un bicchierino di vino, più precisamente – secondo alcuni dizionari – da un decimo di litro (la quantità che solitamente viene servita in osteria).
Non è facile stabilire come in veneto la parola abbia assunto un significato tanto particolare, anche perché il latino umbra non lasciava certo spazio a questa interpretazione; la versione più accreditata è quella secondo cui il termine sarebbe nato a Venezia, in Piazza San Marco, dove le bancarelle che vendevano il vino venivano continuamente spostate durante il giorno per seguire l’ombra del campanile e scampare così alla calura del sole: per questo motivo dàmene uno, ombra si sarebbe col tempo trasformato in dàme ‘n’ombra.
Comunque sia, oggi in qualsiasi locale del Veneto (anche quelli meno “popolari”) un’ombra de vin o un’ombretta è sinonimo del bicchierino che viene servito a un avventore di una certa età, che ancora sa chiamare le cose alla maniera tradizionale.
Onto e bisonto
Le macchie del corpo e dell’animo
Uno degli errori più classici che fanno i non veneti quando cercano di capire il significato di alcune espressioni degli ex territori della Serenissima è quello di credere che onto sia il corrispettivo dell’italiano unto: niente di più errato.
Onto, infatti, nel dialetto veneto ha un’accezione molto più ampia, che accoglie sia l’essere unti, sia l’essere macchiati, sporchi, lerci, infangati e ogni possibile accezione della sporcizia personale. Addirittura, a una persona si può dire che è onta senza bisogno che sia davvero sporca, ma per darle della sporcacciona o comunque della portatrice di macchie morali (d’altronde, anche in italiano un’onta è sostanzialmente una macchia morale da lavare, una causa di vergogna).
L’etimologia della parola, in questo senso, è rivelatrice: mentre l’italiano unto deriva dal latino unctum – participio di ungo, ungis – che significa ungere ma anche spalmare e bagnare, il veneto onto probabilmente è passato attraverso il francese honte, che significa vergogna (mentre unto si dice oint). Spesso in Veneto il termine onto può essere anche usato col rafforzativo bisonto, espressione che si ritrova, con un significato praticamente sovrapponibile, anche nell’italianizzazione unti e bisunti.