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Cinque attentati (terroristici e politici) falliti

La storia, soprattutto dal Ventesimo secolo in poi, è costellata da attentati: la Prima guerra mondiale – anche se motivata da una miriade di cause diverse – prese avvio dall’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria ad opera del nazionalista Gavrilo Princip; la storia degli Stati Uniti è segnata da una serie interminabile di attentati contro i Presidenti, a volte riusciti (come nel caso di Abramo Lincoln e John Fitzgerald Kennedy, solo per citare i più noti) e a volte no; pure le grandi battaglie civili del secolo scorso sono state spesso contrastate, ma non fermate, da uccisioni come quelle del Mahatma Gandhi o di Martin Luther King. A volte, però, gli attentati non riescono, per l’inesperienza degli attentatori, per la prontezza delle forze dell’ordine o anche solo per l’intervento del caso o del destino che dir si voglia; e se in alcuni di questi casi – e mi riferisco agli attentati subiti da Hitler e Mussolini, solo per fare due nomi – tutto sommato è lecito pensare a come sarebbe potuti andare gli eventi se quegli attentatori avessero portato a termine la loro missione, in altri il fatto che l’attentato non sia andato a buon fine è un fatto più che positivo, che ha consentito cioè all’umanità di fare dei passi avanti non indifferenti. Vediamo dunque cinque casi in cui degli attentati terroristici o politici sono fortunatamente falliti.

L’attentato a Theodore Roosevelt

Salvato dal proprio discorso

Theodore Roosevelt è stato uno dei presidenti più amati e controversi della storia degli Stati Uniti d’America: vincitore del premio Nobel per la pace, due volte presidente (con tanto di volto scolpito sul monte Rushmore), unico in grado di scardinare almeno per un breve periodo il bipolarismo tra democratici e repubblicani, populista, cacciatore appassionato e premiatissimo; uno di quei personaggi che si amano visceralmente o si odiano altrettanto visceralmente. Governò sugli States dal 1901 al 1909 e, seguendo una consuetudine secolare, alla fine del suo secondo mandato si ritirò a vita privata, lasciando il Partito Repubblicano nelle mani di quello che sarebbe diventato il suo successore alla Casa Bianca, William Howard Taft. Nel 1912, però, deluso dai quattro anni di presidenza di Taft, volle presentarsi di nuovo alle elezioni: nonostante avesse vinto le primarie in quei pochi stati in cui già si svolgevano, la nomination andò però proprio al suo avversario, che riuscì a spuntarla nel Congresso di Chicago; Roosevelt, d’altro canto, non era spirito da accettare la sconfitta, tanto più quando sembrava derivare da un gioco di palazzo, e fondò un nuovo partito che chiamò Partito Progressista o Bull Moose Party. Nella corsa alla Casa Bianca del 1912 si presentarono quindi in tre: il candidato democratico, Woodrow Wilson – che poi avrebbe vinto -, lo stesso Roosevelt, che prese il 27% dei voti, e Taft, che si fermò al 23%. Senza Roosevelt forse Taft sarebbe stato rieletto, portando a esiti molto diversi anche per l’Europa nella successiva Grande guerra. Proprio durante quella campagna elettorale, il 14 ottobre 1912, Roosevelt si trova a Milwaukee per una serie di incontri: parlò in un hotel cittadino durante un pranzo organizzato a suo sostegno, ma mentre stava entrando nell’auto che lo aspettava fu avvicinato dall’immigrato tedesco John Schrank che gli sparò. Il proiettile, per sua fortuna, attraversò prima la custodia d’acciaio dei suoi occhiali e poi il testo di un discorso di 50 pagine che teneva nella tasca interna della giacca, penetrandogli perciò poco nella carne e non arrivando fino ai polmoni. Roosevelt volle tenere comunque il discorso programmato per il pomeriggio, dove mostrò le pagine col foro. Il proiettile non fu mai rimosso dal suo corpo perché l’operazione era ritenuta troppo pericolosa e comunque Roosevelt morì 7 anni dopo per altri motivi. Schrank era un individuo mentalmente disturbato, che disse alla polizia di non aver nulla contro l’ex presidente ma semplicemente di non volere che nessuno potesse assurgere alla massima carica dello Stato per tre volte; internato in un ospedale psichiatrico, sarebbe morto nel 1943.

L’attentato a Franklin Delano Roosevelt

Il calabrese che uccise il sindaco di Chicago

Passiamo ad un altro Roosevelt fondamentale per la storia degli Stati Uniti, quel Franklin Delano che non era imparentato con Teddy ma che riuscì dove il suo omonimo aveva fallito, cioè nel farsi eleggere presidente per quattro volte consecutive. Anche lui fu però protagonista di un attentato, tra l’altro subito appena prima di insediarsi per la prima volta nella nuova carica, il 15 febbraio 1933. In quella data, infatti, Roosevelt si trovava a Miami in visita alla città assieme al sindaco di Chicago, l’immigrato ceco Anton Cermak, democratico come lui e suo sostenitore; durante la giornata i due girarono per la città su un’auto scoperta, e Roosevelt improvvisò un discorso, fino a quando non piombarono degli spari sull’auto stessa. A sparare era l’italiano Giuseppe Zangara, nato a Ferruzzano, in Calabria, nel 1900, trasferitosi negli Stati Uniti nel 1923 e diventato cittadino americano nel 1929; alto solo poco più di un metro e mezzo, Zangara non poté vedere bene l’auto in mezzo alla folla e quindi mancò il bersaglio, ma quando la gente si girò verso di lui e cercò di assalirlo e disarmarlo iniziò a sparare all’impazzata, ferendo cinque persone tra cui il sindaco Cermak, che sarebbe morto di peritonite diciannove giorni dopo. Roosevelt rimase illeso, con Cermak che, secondo la vulgata, gli avrebbe detto: «Sono contento che sia toccata a me invece che a te». Zangara, veterano della Prima guerra mondiale e muratore disoccupato con sempre più gravi problemi fisici all’addome, fu arrestato e condotto in carcere, confessando subito il reato: «Ho la pistola in mano – disse -. Uccido prima i re e i presidenti e poi tutti i capitalisti». Fu condannato alla pena capitale in tempi record e giustiziato tramite sedia elettrica il 20 marzo di quello stesso anno, appena un mese dopo l’attentato. Secondo alcuni – in realtà senza un gran supporto di prove ma facendo riferimento alle prime notizie riportate dai giornali – Zangara avrebbe ucciso per conto della mafia di Chicago che voleva far fuori non Roosevelt ma proprio Cermak; la dinamica dei fatti, però, sembra indicare che il vero obiettivo fosse il presidente, che l’italiano avesse agito da solo e che l’ipotesi del collegamento con la mafia fosse frutto più che altro del pregiudizio contro gli italiani, allora piuttosto diffuso.

L’attentato a Palmiro Togliatti

Antonio Pallante, il rischio dell’insurrezione e la vittoria di Bartali al Tour

L’Italia, per fortuna o per sfortuna, non è mai stata un paese in cui gli attentati andassero facilmente a segno. Certo, c’è sicuramente chi ricorda l’assassinio di Cesare e le congiure del Rinascimento, però in tempi recenti si contano molti più tentativi falliti che non riusciti: dopo l’omicidio di Umberto I – riuscito solo in seguito a due precedenti tentativi falliti da parte di altrettanti anarchici – si susseguirono una serie di attentati fallimentari contro Benito Mussolini, come quelli di Tito Zaniboni, Gino Lucetti, Anteo Zamboni e altri. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale e il carico di faide, attentati e rappresaglie che questa aveva portato in Italia, si poteva pensare che la pacificazione nazionale fosse alle porte e ci si avviasse verso un periodo di tranquillità. Alle 11:30 del 14 luglio 1948, però, il segretario del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti, fu colpito da tre colpi di pistola sparatigli a bruciapelo all’uscita da Montecitorio, mentre era assieme alla sua giovane compagna Nilde Iotti. L’attentatore era Antonio Pallante, un venticinquenne studente di giurisprudenza dalle idee politiche piuttosto confuse – si professava liberale, ma aveva militato nel movimento qualunquista e gli si trovò addosso pure una copia del Mein Kampf – che era salito a Roma col preciso intento di ucciderlo, ritenendo che la politica di vicinanza all’URSS del PCI fosse pericolosa per le sorti dell’Italia. Togliatti fu operato d’urgenza mentre in diverse località sorsero spontanee manifestazioni di protesta: a Torino gli operai sequestrarono l’amministratore delegato della FIAT, Vittorio Valletta, mentre gli operai scesero in piazza agguerriti a Genova e in altre città industriali. La paura era che si fosse sull’orlo di una nuova guerra civile che probabilmente avrebbe implicato anche una nuova discesa in Italia delle forze statunitensi, e già quel giorno si registrarono 14 morti (10 manifestanti e 4 agenti) e centinaia di feriti. Fu Togliatti, appena svegliatosi dall’anestesia, a impartire ai suoi secondi Secchia e Longo di sedare le folle, e così la rivolta presto rientrò. La leggenda però vuole che un ruolo decisivo in tutta la faccenda l’abbia avuto anche la vittoria al Tour de France, in quegli stessi giorni, di Gino Bartali, che avrebbe fatto sbollire la rabbia dei militanti comunisti. Pallante fu condannato a dieci anni, ma tra appello e amnistie uscì dal carcere già nel 1953, pochi mesi dopo la fine del processo; si stabilì quindi in Sicilia, trovando impiego addirittura nel Corpo Forestale dello Stato.

L’attentato a Martin Luther King

La pugnalata di Izola Curry nel 1958

Tutti sapete che Martin Luther King, purtroppo, è morto in un attentato a Memphis nel 1968, ucciso da un cecchino con un fucile ad alta precisione mentre si trovava in un motel, intento a organizzare alcune manifestazioni per i diritti degli afroamericani. Aveva all’epoca 39 anni, e già da parecchio tempo lavorava alla causa della sua gente, promuovendo la non violenza e ottenendo faticosi ma importanti successi. Pochi sanno, però, che già dieci anni prima, quand’era solo un giovane reverendo che iniziava a farsi strada sulla scena nazionale, King era stato vittima di un ulteriore attentato in cui aveva rischiato seriamente la vita: il fatto che riuscì a salvarsi ha consegnato al mondo dieci anni di predicazioni, discorsi e attivismo che hanno cambiato la storia degli afroamericani e non solo. I fatti: il 20 settembre 1958 King si trovava in una libreria di Harlem, a New York, intento a presentare il suo libro Stride Toward Freedom. Com’è d’uso anche oggi, dopo aver parlato al pubblico, King si intrattenne a firmare dediche e a parlare faccia a faccia con alcuni convenuti; tra questi si presentò anche una donna afroamericana di quarantadue anni, tale Izola Ware Curry, che lo pugnalò sul torace con un tagliacarte lungo 18 centimetri. King fu soccorso da una coppia di poliziotti, uno bianco e uno nero, che si trovavano nei paraggi e fu portato di corsa all’ospedale di Harlem, dove fu operato per due ore e un quarto per la rimozione del tagliacarte dal petto e per suturare la ferita. I medici dichiararono: «Se il dr. King avesse starnutito o tossito, l’arma avrebbe penetrato l’aorta. Era solo a uno starnuto dal morire». La Curry era una cuoca e governante mentalmente disturbata, che aveva sviluppato una sorta di paranoia nei confronti della National Association for the Advancement of Colored People, l’organizzazione di King, tanto che alla polizia dichiarò che il reverendo si era «messo assieme ai comunisti» e che l’aveva boicottata e torturata, spingendola a perdere il lavoro; quando fu arrestata le fu trovata addosso anche una pistola carica. La Curry fu internata in un ospedale per malati di mente criminali, mentre King, ritornato in Alabama, pronunciò parole di compassione per la sua attentatrice: «Sono profondamente dispiaciuto che una donna fuori controllo possa aver fatto del male a se stessa cercando di fare del male a me. Posso dire, in tutta sincerità, che non porto nessuna amarezza verso di lei e non provo risentimento».

L’attentato a Giovanni Paolo II

Ali Ağca e la pista bulgara

Concludiamo con un attentato recente, almeno rispetto a quelli che abbiamo visto finora, che grande eco ebbe in tutto il mondo a causa dell’obiettivo che si era preposto, il papa Giovanni Paolo II. Il 13 maggio 1981 Karol Wojtyla, da due anni e mezzo eletto a sorpresa pontefice della Chiesa cattolica, si trovava in piazza San Pietro a Roma per la solita udienza generale; mentre si spostava a bordo della papamobile in mezzo alla folla gli furono sparati tre colpi di pistola dal turco Ali Ağca, un militante del gruppo di estrema destra dei Lupi Grigi che già era stato condannato e incarcerato in patria per l’omicidio di un giornalista nel 1979 ma era riuscito ad evadere di prigione. Ağca tentò la fuga e riuscì ad arrivare fino al colonnato di piazza San Pietro, ma fu poi preso dalle forze dell’ordine; il papa, intanto, fu portato di corsa in ospedale e, dopo un intervento durato più di cinque ore, riuscì a salvarsi. L’attentatore turco fu processato per direttissima e sostenne di aver agito da solo, invocando la malattia mentale; la corte però ritenne che Ağca avesse compiuto l’attentato per conto di una non meglio identificata organizzazione eversiva e lo condannò all’ergastolo per tentato omicidio di Capo di Stato estero. Successivamente il terrorista cambiò versione, tirando in ballo i servizi segreti bulgari e, più recentemente, anche l’ayatollah Khomeyni, ma le indagini non hanno mai portato a nulla di concreto; d’altro canto nel 1983 il papa fece visita in carcere ad Ağca, ma i contenuti del colloquio rimasero riservati. Dopo 19 anni passati in Italia, nel 2000 il turco ha ottenuto l’estradizione nel suo paese d’origine, dove ha scontato altri anni di carcere per l’omicidio del già citato giornalista ed è ritornato infine uomo libero nel 2010, dichiarando però in quell’occasione di essere il nuovo Cristo e di prepararsi all’apocalisse.

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Redazione